I. Il nuovo ruolo della Libia nel sistema coloniale italiano
1. Al principio degli anni Trenta, la Libia aveva mutato volto : la sconfitta della resistenza dei mujāhidīn e la fine delle operazioni di guerra che avevano interessato il paese per vent’anni (dal 1911 al 1931) l’avevano trasformata in un luogo sicuro, aperto alla colonizzazione demografica e anche all’esperienza turistica. Il possedimento africano non era più soltanto il luogo dove inviare i soldati, la terra delle violente e massicce repressioni [1]. Assieme al ruolo che la Libia aveva assunto all’interno del sistema coloniale italiano, si stava trasformando anche l’immagine della colonia mediterranea : non più il terreno dove misurare la maschia potenza militare dell’Italia, abitato da popolazioni considerate selvagge (ma in grado di tenere in scacco l’esercito italiano per vent’anni), ma una terra pacificata e pronta ad accogliere migliaia di contadini italiani affamati di terre. La propaganda turistica contribuì concretamente a modificare la percezione che gli italiani avevano della Libia, la quale, nel corso degli anni Trenta, passò dall’essere un enorme fronte di guerra, alla terra che gli italiani avevano sognato fin dal 1911, e perfino prima : un’accogliente quarta sponda.
2. Nell’Italia fascista degli anni Trenta, le riviste turistiche rappresentarono un potente strumento di propaganda coloniale : va considerato, infatti, come i lettori dei periodici di viaggio non fossero solamente coloro i quali erano intenzionati a intraprendere effettivamente una vacanza (che nonostante il rapido sviluppo dell’industria turistica rimaneva un privilegio riservato a pochi), ma soprattutto la categoria ben più ampia di coloro che non viaggiavano. La larga diffusione della rivista ufficiale del Touring club italiano, Le Vie d’Italia, conferma come essa riuscisse a raggiungere un pubblico relativamente ampio, composto non soltanto da turisti [2]. Per molti la lettura della rivista sostituiva il viaggio stesso, rappresentando una fonte di conoscenza che soddisfaceva la naturale curiosità di esplorare luoghi lontani [3]. Le riviste adempivano al prezioso ruolo di canali di diffusione della propaganda coloniale, in sintonia con gli indirizzi del regime fascista.
3. Fin dai primi anni Trenta emerse l’interesse della classe dirigente italiana, sia di Roma che di Tripoli, per lo sviluppo dell’industria turistica in Libia : nelle intenzioni dei vertici politici, il turismo avrebbe dovuto trasformarsi in un’importante fonte di entrate per la colonia, seconda soltanto al settore agricolo. In un editoriale del 18 giugno 1932, il direttore del giornale L’Avvenire di Tripoli (organo della federazione fascista di Tripoli), Ugo Marchetti, sottolineava come il turismo non rappresentasse un tema secondario e trascurabile, semmai una vera e propria esigenza della colonia. Marchetti rimarcava le potenzialità economiche dell’industria turistica, favorita dall’organizzazione del lavoro ormai trionfante negli anni Trenta, basata sulla rigida regolazione degli orari di lavoro, che, imponendo periodi di ferie retribuite, dava la possibilità ai lavoratori di viaggiare per puro piacere. Tale tendenza allo sviluppo del settore turistico non fu arrestata nemmeno dalla Grande crisi del 1929 [4].
4. Dunque, l’interesse del regime fascista nei confronti del movimento turistico risiedeva da un lato nella prospettiva di governare un importante movimento economico (e in questo senso il paesaggio libico divenne una merce da consumare), dall’altro il turismo si trasformò in una potente arma di propaganda.
5. Il presente saggio prende in analisi due delle principali riviste di viaggio dell’epoca : Le vie d’Italia e Libia [5]. La prima era l’organo ufficiale del Touring club italiano, mentre la seconda, che iniziò le pubblicazioni nel 1937, era edita dall’ETAL (Ente turistico alberghiero della Libia), fondato a Tripoli dal governatore Italo Balbo nel 1935.
II. La rivista « Le Vie d’Italia »
6. Nel periodo precedente agli anni Trenta, la rivista Le Vie d’Italia aveva concesso una discreta attenzione al paesaggio libico, pubblicando diversi articoli relativi alla quarta sponda. Spesso si trattava di resoconti di viaggi, il cui fine era quello di orientare il turista, tutti accomunati da un medesimo sottofondo : l’esotico, utilizzato come categoria onnicomprensiva, utile per catalogare tutto ciò che era diverso, strano, fino a produrre un senso quasi di paura, senza perdere però la sua capacità attrattiva [6]. L’esotico divenne quasi un sinonimo del freudiano unheimliche.
7. L’esotismo rappresentò sin dal 1911 la modalità privilegiata di leggere la colonia, riflettendo un’immagine stereotipata della Libia (specie delle sue zone interne). Proprio l’artificiosità di tale visione, basata su pregiudizi piuttosto che su un confronto oggettivo con la realtà, le permise di sopravvivere a lungo, giungendo intatta fino agli anni Trenta. Ancora nel gennaio 1934, in un articolo uscito su Le Vie d’Italia, la descrizione della città di Bengasi (capoluogo della Cirenaica) riprendeva i temi dell’esotico : secondo il giornalista, la lunga dominazione islamica aveva donato alla città di Bengasi uno stile orientale, « con quel modo involuto, ermetico e misterioso che, se non persuade l’intelletto, affascina lo spirito » [7]. Il tratto esotico diveniva ancor più evidente e pesante nella descrizione del deserto, la meta più ambita dai turisti : in un articolo dell’aprile 1935, il deserto era rappresentato come un luogo non toccato dal tempo, avvolto in una dimensione atemporale, e dunque irriducibile alla modernizzazione. Questo ambiente surreale era il campo di battaglia dove si combatteva lo scontro tra due elementi primordiali della natura : la terra e l’aria [8]. Ai lettori, la rivista offriva una visione estatica, soddisfacendone il desiderio di assaporare nuove emozioni, da vivere in un territorio che si presentava diametralmente opposto a quello europeo, dove « il tempo si è arrestato. Nulla più cambia, nulla più cambierà mai, forse » [9].
8. L’immagine della colonia proposta dagli articoli pubblicati su Le Vie d’Italia era quella di una terra selvaggia, che sebbene dominata militarmente, non lo era sotto il profilo culturale e infrastrutturale : la Libia rappresentava, insomma, una sorta di anti-Europa, non contaminata dalla meccanizzazione e in definitiva dalla modernità.
9. Quest’immagine della colonia s’incrinò intorno alla metà degli anni Trenta. Scorrendo le pagine della rivista, emerge un deciso cambiamento nel tenore degli articoli e dei resoconti di viaggi fatti dagli stessi giornalisti. La descrizione della natura selvaggia e ammaliante della colonia cedeva il passo alla cronaca del mirabolante e quasi miracoloso sviluppo delle strutture alberghiere e stradali della Libia. La quarta sponda veniva presentata come una colonia moderna, in virtù dell’opera civilizzatrice del regime italiano (e non certo per merito dei libici). Il tema della modernità, declinato nel campo turistico, si esprimeva nella costruzione di alberghi, strade e casinò, che offrivano al turista non più un’avventura fuori dal tempo, all’insegna dell’esotismo, ma un viaggio le cui caratteristiche erano soprattutto la sicurezza e il comfort.
10. Un esempio può essere utile per chiarire meglio la svolta della rivista Le Vie d’Italia. Il mutamento di prospettiva fu particolarmente evidente per quanto riguarda l’immagine delle regioni interne della Libia, ovvero quelle desertiche. Se negli articoli pubblicati sino alla metà degli anni Trenta, le descrizioni dei viaggi verso la lontana oasi di Ġaḏāmes sottolineavano la natura indomabile del paesaggio desertico che circondava l’isolata meta, proiettandola in una dimensione atemporale, dopo il 1935 l’alone di esotismo sparì a favore di una rappresentazione che insisteva sull’opera di modernizzazione del regime fascista. Nell’articolo dal titolo L’autostrada del deserto libico, uscito sul numero di agosto 1936 e dedicato all’autostrada che univa Tripoli a Ġaḏāmes (lunga settecento chilometri), il viaggio perdeva quel tratto romantico e un po’ avventuroso, ma poco agevole, del sentiero carovaniero, a favore della velocità e sicurezza del percorso stradale [10]. L’insistenza sulla comodità del trasporto rappresenta la vera novità che emergeva da quest’articolo di Loschi :
L’autoservizio turistico regolare impiega quattro giorni, tra andata e ritorno, con un percorso comodo e attraente di grande interesse paesistico e archeologico. Si viaggia in un grande autopullman sahariano che soddisfa le esigenze del più raffinato turista : poltrone comodissime, che si convertono all’occorrenza in letti, tavoli e tavolinetti, dispensa ben fornita, cameriere, apparecchio radio ricevente e trasmittente con radiotelefonista a disposizione dei turisti, due serbatoi d’acqua, ghiacciaia, servizio di toeletta e uno speciale sistema di immissione di aria fresca che consente una difesa dagli eventuali assalti del ghibli [11].
11. La costruzione dell’autostrada era il primo passo per domare la natura ribelle, dopo che il regime fascista era riuscito a domare un popolo considerato altrettanto ribelle, quale quello libico.
12. La modernizzazione non riguardava soltanto le vie di comunicazione, ma anche le strutture dell’accoglienza. Nel corso degli anni Trenta, lo sforzo del governo di Tripoli si concentrò sulla costruzione di nuovi alberghi, che mantennero sotto il profilo architettonico uno stile vagamente orientale (l’Oriente secondo l’Occidente ovviamente), senza rinunciare tuttavia al comfort, che diveniva esso stesso un richiamo per il viaggiatore. Proprio l’insistenza sulla comodità dell’esperienza turistica (data dalla sicurezza delle strade e dal comfort degli alberghi) cancellava l’immagine della colonia come spazio opposto e contrario rispetto alla metropoli.
13. L’articolo di Loschi era il sintomo del mutato atteggiamento del governo italiano rispetto al possedimento mediterraneo e in definitiva del nuovo rapporto che legava la metropoli alla colonia. Quest’ultima perdeva la fisionomia di luogo lontano e avverso, iniziando ad assomigliare sempre più al Regno. Parimenti, la narrazione della realtà coloniale perdeva i toni della più stantia e insopportabile retorica dell’esotismo, mentre a prevalere era una descrizione che, sebbene impregnata di propaganda, diveniva più oggettiva. D’altronde, dopo oltre vent’anni di occupazione e di durissima repressione, accompagnata da una propaganda che aveva dipinto i libici come indomabili selvaggi, era necessario conoscere davvero il paese. La rivista Le Vie d’Italia affidò quest’esplorazione a reportage che erano più dettagliati e obiettivi rispetto al passato, con lo scopo di andare oltre il velo del mistero, abbandonando l’immagine della Libia come un paese oscuro e lontano.
14. Cosicché, la narrazione dell’effetto perturbante che il deserto aveva sui viaggiatori lasciava spazio alla descrizione dell’opera modernizzatrice del fascismo, che aveva « vinto il deserto », come annunciava un articolo uscito su Le Vie d’Italia nel dicembre 1936 [12]. Un chiaro esempio del nuovo orientamento erano gli articoli firmati dal geologo Ardito Desio, che portavano all’attenzione dei lettori le « meraviglie geologiche » della Libia. Gli articoli di Desio erano caratterizzati da un deciso taglio scientifico, che lasciava poco spazio alla stantia retorica « orientalista » di cui erano impregnati molti resoconti di viaggio [13].
15. Nella seconda metà degli anni Trenta, allo sguardo orientalista che si posava sull’ombra proiettata dalla figura, piuttosto che sulla figura stessa, si sostituì un diverso sguardo indagatore, per certi versi più « scientifico ». Ma se lo sguardo si spostò dall’ombra proiettata dalla figura alla figura stessa, gli occhiali indossati dall’osservatore rimasero sempre gli stessi, quelli dell’ideologia colonialista propugnata dal regime fascista.
16. Quali sono i motivi di questo mutamento d’indirizzo, a tal punto radicale da apparire governato dall’alto ? In primo luogo l’accelerazione della politica di colonizzazione demografica della Libia. Conclusa la lunga fase bellica durata due decenni, la Libia divenne il luogo destinato ad accogliere migliaia di emigrati italiani [14]. Per adempiere a tale funzione di colonia di popolamento, era necessario che gli standard di vita in Libia si elevassero, avvicinandosi a quelli della metropoli. Si comprende così l’insistenza sulla modernità delle infrastrutture e degli alberghi, che emerge dallo spoglio degli articoli pubblicati su Le Vie d’Italia a partire dalla metà degli anni Trenta.
17. L’abbandono dell’immagine della colonia legata allo stereotipo di un luogo misterioso ed oscuro è esplicitata da diversi articoli firmati dallo stesso presidente del Touring club, Carlo Bonardi. Nell’editoriale dal titolo L’avvenire turistico della Libia, Bonardi sottolineava come la quarta sponda tendesse ad assomigliare sempre più alla metropoli, evidenziando addirittura la rapida diffusione della lingua italiana tra la popolazione libica [15]. L’editoriale di Bonardi può considerarsi il manifesto del rinnovato indirizzo della rivista, impegnata nella costruzione di una nuova immagine della quarta sponda, in linea con l’orientamento del governo fascista. Dunque, il mutamento d’indirizzo della rivista non rispondeva solamente all’evoluzione dei gusti dei turisti, che divennero più raffinati, ma è da collegarsi ad una linea d’azione più ampia, intrapresa dal regime mussoliniano con riferimento alla questione libica.
18. Tale svolta investì lo stile degli articoli, che divenne più retorico e pomposo, mentre in precedenza si era mantenuto « asciutto e scarno (“positivistico” in definitiva) » [16]. Ma a modificarsi fu, soprattutto, il ruolo che il Touring club ricopriva all’interno della società italiana :
In seguito all’attivismo del regime fascista per la diffusione del turismo popolare viene dunque affievolendosi il ruolo svolto dal Touring nei suoi primi tre decenni di vita. Di fatto il regime fascista fa proprie le motivazioni che erano state all’origine del Touring, espropriandolo di prerogative e competenze un tempo di suo esclusivo dominio. Se nell’età liberale il Touring aveva di fatto operato in un regime di monopolio, fra gli anni Venti e Trenta viene a subire la concorrenza di quella potente « agenzia viaggi » creata dal regime che porta a compimento un processo di appropriazione della iniziativa turistica da parte dello stato iniziato ancor prima dell’avvento di Mussolini [17].
19. Il fascismo inserì il movimento turistico nell’ampia azione di propaganda e di inquadramento della società che, a partire dalla seconda metà degli anni Trenta, subì una decisa accelerazione. Sintomi del nuovo atteggiamento del regime furono i regi decreti del 21 novembre 1934 e 3 dicembre 1934, che inquadravano l’ENIT, la CIT (Compagnia Italiana Turismo [18]) e il Commissariato per il turismo [19] nel sottosegretariato per la stampa e propaganda. Si trattava di una strategia di accentramento delle attività e dei centri di organizzazione del movimento turistico di cui cadde vittima anche il Touring club (che già nel 1929 aveva perso il privilegio di inviare tre suoi delegati presso il consiglio di amministrazione dell’ENIT) [20].
20. Il nuovo orientamento che emergeva dalla lettura degli articoli pubblicati su Le Vie d’Italia, se da un lato era figlio della mutata sensibilità del pubblico italiano, dall’altro segnalava la perdita d’autonomia dell’ente Touring club, divenuto ormai strumento della propaganda del regime fascista.
III. La rivista « Libia »
21. L’affermarsi del nuovo orientamento nella propaganda turistica emergeva in maniera particolarmente accentuata sulla rivista Libia, edita dall’ETAL, l’Ente turistico alberghiero della Libia [21] fondato nel 1935 dal governatore generale della Libia Italo Balbo [22]. Lo sviluppo dell’industria turistica fu un obiettivo centrale dell’agenda politica di Balbo, il quale scorgeva in tale settore un volano per l’economia e un importante veicolo propagandistico per rimarcare i progressi della colonia sotto la sua guida. La nascita dell’ETAL rispondeva all’esigenza di sottrarre il turismo alla gestione degli operatori privati, concentrando nelle mani di un unico ente pubblico l’organizzazione dell’intero settore : si adottò, dunque, una « soluzione che può dirsi, senza esagerare, totalitaria » [23]. Due anni dopo la fondazione dell’ETAL, nel 1937 l’ente si dotò anche di una rivista (Libia [24]), nel cui comitato di redazione sedevano lo scrittore Francesco Corò, il direttore del quotidiano L’avvenire di Tripoli (organo della federazione fascista di Tripoli) Ugo Marchetti, Claudio Brunelli (direttore generale dell’ETAL), l’architetto razionalista Carlo Rava e Pio Gardenghi (segretario del governatore).
22. Fin dal principio, l’obiettivo della rivista non fu quello di suscitare il desiderio del turista di visitare una terra avventurosa e misteriosa, ma piuttosto quello di scoprire una moderna colonia italiana, laddove il carattere di italianità non era dato dalla mera presenza delle truppe o dei coloni italiani, ma dal rapido processo di italianizzazione della quarta sponda. La tendenza già emersa nella rivista Le Vie d’Italia, dunque, trovava una più esplicita e matura declinazione sulle colonne di Libia. Per rafforzare tale impressione la rivista suggeriva un percorso che non prevedeva esclusivamente le visite alle oasi, o ai siti archeologici, ma incoraggiava i turisti a recarsi presso i villaggi colonici e a compiere lunghi viaggi in macchina lungo la nuova strada litoranea inaugurata nel 1937, che collegava l’estremo confine occidentale della Libia con l’Egitto, correndo lungo tutta la costa mediterranea [25].
23. L’esperienza turistica suggerita dalla rivista faceva prevalere il momento della propaganda su quello dello svago e proprio per questo motivo era rivolta a un pubblico molto ampio : infatti, nella prospettiva della dirigenza fascista, se il turismo d’evasione era un privilegio per pochi, l’indottrinamento veicolato attraverso la propaganda turistica era rivolto alle masse [26]. Sarebbe stato proprio il fascismo ad aprire l’esperienza turistica ad un pubblico più ampio : non solo pochi e avventurosi (e ricchi) turisti, ma anche appartenenti al ceto popolare, che approdavano in Libia grazie ai viaggi organizzati dalle associazioni del dopolavoro, allo scopo di prendere coscienza degli enormi progressi raggiunti in Libia [27]. Il fine politico era quello di inculcare nell’immaginario collettivo (soprattutto in quello delle classi popolari) la consapevolezza che la Libia era ormai una regione pacificata, salubre e aperta alla colonizzazione italiana. In fondo, era all’interno di questa fascia sociale che il regime avrebbe selezionato i futuri coloni.
24. Esemplificativo di tale indirizzo era l’articolo di Umberto Bellini uscito nell’agosto 1937, dal titolo La crociera dei milanesi a Tripoli : si trattava del resoconto del viaggio di 1.400 dopolavoristi nella colonia mediterranea. La prima tappa del viaggio, durato soltanto due giorni, era stata la cripta del monumento dei caduti a Tripoli, seguita da un’escursione verso le zone di Tājūrāʼ e Ġaryān col treno ; nel tardo pomeriggio il programma aveva previsto una breve sosta presso il lido di Tripoli. Il secondo giorno era stato dedicato alla visita degli scavi archeologici di Leptis Magna e Sabratha, e si era concluso con un ricevimento offerto dal governatore Balbo presso i saloni del Grande Albergo di Tripoli [28].
25. Dal dettagliato resoconto emergeva come lo scopo principale del viaggio fosse quello di rafforzare la coscienza coloniale dei dopolavoristi, piuttosto che procurar loro un’esperienza di piacere. Per tale motivo, le tappe del viaggio erano scandite minuziosamente dall’autorità che organizzava la « vacanza », e i « presunti turisti » erano in realtà privati della libertà di girovagare senza costrizioni od obblighi, ma erano irregimentati in un programma di escursioni che lasciava poco spazio alla curiosità e alla spensieratezza che l’esperienza turistica presupporrebbe. Il fine perseguito dalla classe dirigente fascista, reso esplicito dall’autore dell’articolo, era quello di dissuadere i turisti dal « guardare alla colonia come ad una terra in cui non v’è che avventura e disagio, sibbene ad una terra ormai civilissima, dove l’asprezza del lavoro è mitigata dall’abbondanza delle comodità e delle provvidenze » [29].
26. Per rafforzare tale impressione, la rivista Libia pubblicò svariati articoli che avevano come oggetto i villaggi colonici che ospitavano gli emigrati italiani, in particolare coltivatori. Il racconto della vita all’interno dei villaggi colonici divenne quasi un topos giornalistico, con la moltiplicazione degli articoli che trattavano il tema degli insediamenti italiani in Libia : Pio Gardenghi nel novembre 1938 annunciava come « d’ora innanzi una nuova attrattiva –e fra le più interessanti– arricchirà il taccuino del giornalista e del turista libico, la gita ai villaggi » [30]. La necessità di disegnare un nuovo interesse e una nuova modalità di fruizione del paesaggio coloniale non riguardava soltanto i turisti italiani, ma anche quelli stranieri [31].
Carlo Lombardini, nell’articolo La prima crociera di stranieri a Tripoli, descriveva l’arrivo di un gruppo di turisti americani a Tripoli e la loro disillusione per non essere riusciti a vedere il deserto : « questa di voler a tutti i costi trovare il Sahara alle porte di Tripoli è una strana pretesa che hanno molti forestieri. Si ha un bello spiegare che dopo 25 anni di colonizzazione non è la sabbia che si deve vedere, ma i campi arati, gli oliveti, gli agrumeti » [32]. L’aspetto interessante, che emergeva in diversi scritti, è che si tentava di convincere il turista a visitare i villaggi sottolineandone la novità non soltanto dal punto di vista economico, sociale, ma anche urbanistico e finanche artistico.
27. Il nuovo orientamento del regime fascista, che si traduceva in una minore insistenza sul dato esotico e nell’esaltazione della modernità imposta dal colonialismo italiano, ebbe ripercussioni anche nella rappresentazione della cultura libica sulle riviste turistiche. L’italianizzazione del paesaggio libico procedeva di pari passo con la marginalizzazione della cultura dei libici. Tale processo avvenne tanto rapidamente, quanto in maniera contraddittoria e con evidenti forzature.
28. Fin dall’uscita dei primi numeri, la rivista Libia si pose l’obiettivo di ricostruire l’immagine della colonia mediterranea limitando ogni riferimento alla sua anima originaria. In un articolo del luglio 1937, Aroldo Canella invitava a ridurre al minimo la riproduzione di minareti, moschee, suk e teste di cammelli, che rimandavano ad un’immagine ormai superata della colonia, poco in sintonia con l’idea di una Libia moderna e soprattutto fascistizzata. Tale indirizzo poteva raggiungere termini parossistici, arrivando a suggerire di eliminare dalle scenografie dei film ambientati in colonia le « ossessionanti sagome dei minareti » [33].
29. A partire dal 1938 divennero sempre più rari gli articoli incentrati sulla cultura libica. Gli aspetti giudicati più eccentrici della società colonizzata, a cui le pubblicazioni degli anni Dieci e Venti avevano dedicato ampio spazio, quali il misticismo islamico e la sessualità dei nativi (ad esempio la poligamia e il ruolo della donna), non erano più giudicati un tema d’interesse [34]. Da un lato ciò era il sintomo dell’evoluzione dei gusti del pubblico, che non apprezzava più la morbosa curiosità delle riviste rispetto a quei temi ; dall’altro segnalava l’intento di marginalizzare la cultura cosiddetta indigena, in particolare quella araba, che in fondo rappresentava il nucleo fondamentale della storia del paese (sebbene non l’unico), a favore di un’altra cultura genuinamente « indigena » : quella degli antichi romani. In questo modo, la civiltà araba divenne quasi un fastidioso intermezzo in una storia che era partita da Roma due millenni fa e nel 1911 era tornata a Roma.
30. Il riferimento all’eredità romana era tuttavia funzionale agli indirizzi della politica estera mussoliniana e piegato alle esigenze della propaganda fascista. Il dissidio anglo-franco-italiano, scatenato dalle sanzioni nel 1935, influenzò una lettura delle vicende nordafricane di duemila anni prima che appare tendenziosa : il conflitto tra Cartagine e Roma per il controllo del Mediterraneo veniva proposto come esempio dell’inevitabile scontro che coinvolgeva Francia, Inghilterra e Italia. Alla laboriosità contadina degli antichi romani, si opponeva l’atteggiamento parassitario dei punici, considerati un popolo di mercanti, intenti a sfruttare commercialmente le loro colonie [35].
31. La necessità di marginalizzare la cultura libica si spiega altresì facendo riferimento all’obiettivo dichiarato di trasformare la Libia in un territorio di insediamento italiano, dove i metropolitani avrebbero rappresentato la maggioranza della popolazione e imponendo un processo di italianizzazione ai libici. Coerentemente, il governo centrale di Roma nel 1938 annetté il territorio coloniale al Regno e concesse la cittadinanza italiana speciale ai libici [36]. Si disegnava in tale modo una linea di continuità artificiale tra le due sponde del Mediterraneo, creando un legame tra la metropoli e l’oltremare senza reali basi storiche. La distorsione dell’identità del paese, e del suo patrimonio storico, indusse a una rappresentazione della Libia come fosse un’Italia più grande, meno abitata, e più calda. Tale processo di epurazione culturale fu ancor più deciso in relazione agli ebrei di Libia, colpiti dalle durissime leggi razziali emanate nel 1938 dal regime [37].
32. Nella marcia di Mussolini verso l’epurazione culturale non mancarono però le contraddizioni e le incongruenze : infatti, se da un lato il regime era intenzionato a marginalizzare la cultura libica, dall’altro sostenne a livello internazionale una politica filo-islamica e filo-araba, in funzione anti-inglese e anti-francese. Tale orientamento divenne particolarmente evidente dopo il 1936, quando la guerra d’Etiopia e le sanzioni comminate dalla Società delle Nazioni spinsero l’Italia verso un’alleanza con la Germania nazista [38]. Il nuovo indirizzo ebbe degli effetti evidenti sulla linea editoriale della rivista Libia : in particolare, vi fu una moltiplicazione degli articoli incentrati su aspetti specifici della vita del profeta Maometto, nei quali venivano illustrati con dovizia di dettagli i diversi istituti della religione islamica (ad esempio il pellegrinaggio) [39].
33. Questo nuovo interesse del fascismo per l’universo religioso musulmano era ben sintetizzato da un articolo pubblicato nell’agosto 1937 su Libia e affidato alla penna di Enrico Insabato, un noto agente segreto, che aveva operato tra la Libia e l’Egitto per favorire la penetrazione italiana in nord Africa fin dagli anni Dieci [40]. Insabato sottolineava come :
Islam ! Quando si pronuncia questa parola, per molti, è la visione di una folla prosternata e volta verso oriente, di carovane nel deserto, di fasti barbarici, di fanatismo crudele. Nulla di più falso di questo vieto cliché da romanzo d’avventure a dispense, da film per cinema popolari. L’Islam è un mondo, un vastissimo mondo, che non è, soltanto, da considerarsi dal punto di vista numerico e materiale, come agglomerato d’uomini e vastità territoriale, ma anche e soprattutto, come comunità spirituale, che affratella razze e popoli diversi, plasmandone le anime e le intelligenze, il pensiero e la immaginazione [41].
34. Le parole di Insabato interpretavano il nuovo indirizzo del regime, interessato a sostenere l’idea di una convivenza pacifica tra religione islamica e cristiana, superando quel contesto conflittuale che permaneva invece nelle regioni a maggioranza musulmana poste sotto il controllo della Francia e dell’Inghilterra. L’atteggiamento apparentemente comprensivo e aperto col quale il fascismo si accostava al mondo islamico (dietro al quale si celava in realtà una buona dose di paternalismo di matrice coloniale) era posto in contrapposizione all’atteggiamento opportunista e cinico delle altre potenze imperialiste :
Per questo noi siamo convinti della necessità di una politica islamica dell’Italia, politica che ha le sue basi, appunto, nella conoscenza e nella comprensione del complesso mondo musulmano. È necessario dunque avvicinarsi all’Islam, ma non con lo spirito del mercante che cerca solo il suo interesse immediato ; non con lo spirito del conquistatore, per cui ogni razza ed ogni civiltà sono inferiori alla sua e non sa che marciare e comandare ; non con lo spirito dell’erudito che si perde dietro le forme e i ricorsi, dietro i fantasmi di un tempo lontano e i testi polverosi [42].
35. L’alleanza tra la religione musulmana e il fascismo mal si conciliava col processo di marginalizzazione della cultura propriamente libica e segnalava un’evidente incongruenza della politica coloniale italiana.
36. La guerra scoppiata nel 1939 e il successivo coinvolgimento italiano nel conflitto (giugno 1940) imposero alla rivista un crescente impegno propagandistico, interrottosi, tuttavia, già nel dicembre 1940. Le vittorie inglesi nel Mediterraneo segnarono la sconfitta del regime mussoliniano e il crollo dell’effimero « impero di carte » che le riviste turistiche avevano contribuito a costruire.
IV. Conclusione : un impero di carte
37. Lo scoppio della Seconda guerra mondiale segnò la fine del movimento turistico verso la colonia mediterranea. Il contesto bellico impose una brusca interruzione degli spostamenti per piacere e la drastica contrazione dei fondi destinati alla propaganda turistica. Lo stato di guerra nel quale precipitò la colonia fin dall’estate del 1940, e in particolare i rovesci dell’inverno 1940, ebbero come conseguenza l’interruzione della pubblicazione della rivista Libia (dicembre 1940). Tuttavia, l’ETAL non venne soppresso, ma continuò le sue attività per diversi anche dopo la sconfitta africana e la perdita della colonia nordafricana nel 1943. Anche le Vie d’Italia non interruppe le sue pubblicazioni sino a quando il conflitto non raggiunse l’Italia settentrionale nel 1943 (la sede del Touring club era a Milano).
38. La brusca interruzione dei flussi turistici dovuta alla guerra e la relativa breve durata del progetto turistico fascista per la Libia non impediscono comunque di formulare un giudizio sull’impatto che le riviste Le Vie d’Italia e Libia ebbero nello sviluppo del settore turistico. Le statistiche dell’ETAL per gli anni compresi tra il 1930 e il 1938 tracciavano una costante ascesa del numero dei visitatori, segnando in taluni momenti, ad esempio tra il 1931 e il 1932, un triplicarsi delle presenze [43]. Se dunque la capillare opera di propaganda ebbe l’effetto di incrementare enormemente il flusso dei turisti, va osservato che tale crescita non fu proporzionale all’aumento delle entrate ; anzi, la relazione del direttore generale Claudio Brunelli del 15 dicembre 1937 evidenziava le ingenti perdite degli alberghi gestiti dall’E.T.AL., che puntavano sulla clientela di alto livello [44]. Tale discrasia tra il numero dei turisti e quello relativo ai pernottamenti negli alberghi era dovuta al gran numero di crocieristi, i quali « pur non arrecando grandi benefici finanziari, in quanto la loro permanenza nei nostri porti è generalmente brevissima, sono tuttavia da considerarsi di notevole importanza agli effetti propagandistici per la grande quantità di turisti che trasportano, molti dei quali è da sperare siano indotti a rinnovare con più agio la visita affrettatamente fatta » [45]. Parimenti, i viaggi organizzati dagli enti del dopolavoro e universitari avevano come scopo precipuo quello di svolgere un’opera di propaganda, piuttosto che alimentare le entrate delle strutture alberghiere di lusso.
39. Insomma, se il regime non riuscì a creare un’economia del turismo florida e che potesse fare a meno delle elargizioni statali, raggiunse l’obiettivo (forse più importante) di rinnovare l’immagine della colonia mediterranea, che non veniva più percepita come una terra diseredata e selvaggia, ma una prospera appendice del Regno : una regione aperta al turismo, ma soprattutto alla colonizzazione dei ceti popolari italiani, che in fondo erano i veri destinatari di quest’ampia campagna di propaganda del regime.
40. Le riviste Le Vie d’Italia e Libia contribuirono a modificare l’immaginario coloniale degli italiani, creando un repertorio di fotografie, racconti e stereotipi che rappresentarono uno straordinario veicolo propagandistico, utile per creare l’impero di carte del fascismo.
Simona Berhe