I. L’orizzonte giuridico-politico
1. Personalità tipicamente rinascimentale per l’ampiezza degli orizzonti culturali, la poliedricità degli interessi, la capacità di compiere una ricerca giuridica mai disgiunta dalla concreta azione politica e di governo, Michel de L’Hospital può ben annoverarsi tra i giuristi francesi che furono, nel contempo, audaci promotori di una scientia juris aggiornata ai valori emergenti nella moderna realtà sociale e politica, e coraggiosi interpreti di un’azione di governo destinata a consolidare le fondamenta della sovranità regale. La sua azione riformatrice, maturata negli anni sessanta del Cinquecento, risentì a pieno del clima socio-politico francese diviso tra la « preoccupata attenzione verso il passato nazionale e l’ansia di rinnovamento » [1]. La sfortunata successione dinastica seguita alla morte di Enrico II ed i conflitti religiosi tra protestanti e cattolici avevano, infatti, minato alla radice l’unità dello Stato e la compattezza del « corpo mistico » [2] francese. La lacerazione di quel tessuto connettivo, forza aggregante delle genti transalpine e motivo di prestigio nel panorama internazionale, imponeva la ricerca di strategie di rinnovamento capaci di misurarsi con la simultanea considerazione di problemi giuridici, politici, religiosi e sociali. Fu questa la sfida raccolta dal Cancelliere di Francia.
2. Figura « grand de courage, de talents et de vertus », « émule d’Horace » [3], capace d’incarnare « le double honneur des Muses & des Loix, l’union entre la Robe gallicane et la République des Lettres, entre les penseurs politiques et les juristes », la sua ascesa al Cancellierato fu uno dei « prodiges de cette époque si féconde en événements extraordinaires » [4]. Giudizi esaltanti dai toni enfatici, ma adagiati su di un piano celebrativo, inidoneo a cogliere la complessità di una riflessione che rifugge dall’essere imbrigliata in un univoco schema interpretativo : diritto, politica, passione letteraria si fondono in un sinodo indissolubile. Michel de L’Hospital è, dunque, un « prisme dont chaque époque construit, révèle ou occulte une facette, celle qu’elle a besoin de retrouver, d’admirer ou de honnir » [5]. Un’opportunità che discende da quel dinamismo intellettuale che è suo carattere distintivo : il suo pensiero non fu monolitico ma, maturò negli anni, calibrandosi costantemente all’evolversi degli eventi.
3. Assunta la prestigiosa carica di Cancelliere di Francia nel 1560, infatti, Michel de L’Hospital promosse un quadro di riforme ispirato ai principi dell’Umanesimo giuridico e finalizzato ad innovare i meccanismi di gestione del potere pubblico e dell’amministrazione della giustizia. In questa veste, l’obiettivo primario del « Solone di Francia » [6] fu il rafforzamento della Monarchia, quale sintesi del corpo sociale ed interprete della sua unità. Al Sovrano, e conseguentemente ai giuristi del Re, competeva di rinnovare il diritto elaborando norme adeguate ai destinatari « comme le soulier au pied » [7]. Le « zone franche » [8] dalla potestà d’intervento e di controllo del Sovrano dovevano essere eliminate. Numerosi erano, infatti, i centri di potere divenuti col tempo pressoché autonomi rispetto alle direttive centrali : essi costituivano l’ostacolo più rilevante al tentativo di « ricomporre un corpo sociale in dissoluzione, di segnare il ritorno alla teoria e alla pratica del corps mystique » [9].
4. Evidenti erano, poi, gli effetti della disgregazione indotta dal « contagio luterano » [10] e che, solo parzialmente, potevano essere mitigati da un quadro politico istituzionale che, per tempo, aveva cercato la propria coesione intorno alla figura del Re [11]. Sin dai tempi di Filippo il Bello, i sovrani francesi, infatti, vincendo le forze concorrenti della Chiesa e della feudalità, si erano imposti al vertice di un nuovo edificio istituzionale che era stato sostenuto, sul piano ideologico, dai progressi del pensiero giuridico-politico : « la royauté, qui apparaît de plus en plus comme un métier, suppose une instruction » [12]. Il compito era stato assolto da una scienza « placée au service de l’action », che aveva fatto del Re il « cœur » del dibattito politico ed aveva posto le basi, alla fine del Medioevo, di un solido « loyalisme politique » [13]. Miti e leggende sulla sacralità della persona del Re, dotata di poteri taumaturgici e magici, sospesa a metà tra umanità e divinità, avevano ulteriormente contribuito a tanto. La trasposizione dei caratteri di divinità già attribuiti agli Imperatori della fase postclassica [14] aveva alimentato la letteratura giuridica e politica definendo i contorni di una rappresentazione della sovranità regale diretta a celebrare la figura mitico-simbolica del Monarca, immagine di Dio ed interprete diretto della Voluntas.
5. Ma, la crisi dell’universalismo religioso, la disgregazione indotta dalla Riforma e destinata a culminare nelle guerre di religione, segnò « un momento cruciale della vita europea – vita delle coscienze, prima ancora che vita politica degli apparati di potere e dei loro orpelli dottrinali » [15]. Una « forma di desacralizzazione del potere » fu il punto di approdo della svolta : « esito di forte drammaticità », proprio in considerazione della « plurisecolare tradizione politico-religiosa che la regalità francese incarnava come nessun’altra in Europa » [16]. Una nuova forma di legittimazione del potere, che escludeva il ricorso a fondamenti etici e religiosi per affermare l’intrinseca natura legittima dell’autorità dello Stato, si profilava all’orizzonte di un secolo « fanatico e sanguinario » per l’asprezza dei conflitti, specialmente religiosi, « contraddittorio » per il manifestarsi di correnti « tutte allo stato potenziale », ma certamente « visionario » [17].
6. D’altro canto, se è vero che nell’Europa continentale degli inizi del Cinquecento, erano ancora operanti i « capisaldi » del sistema di diritto comune, non può certo negarsi che « già da tempo era in atto un processo che, quanto mai frastagliato e mosso e in accelerazione proprio all’inizio del secolo, metteva in discussione i fondamenti del modo di pensare, dei modelli di riferimento, e appunto del sistema giuridico tradizionale » [18]. La scienza giuridica transalpina, infatti, era riuscita a rendersi interprete di quelle « suggestioni critiche che facevano capo a nuove visioni dell’uomo e, dunque, della vita organizzata dell’uomo » e che serpeggiavano « sotto un sistema normativo fondamentalmente intatto » [19]. Nel corso del XVI secolo, le lacerazioni indotte dai conflitti religiosi avevano introdotto in quel processo momenti di accelerazione profonda accrescendo la tensione dei giuristi verso nuovi strumenti capaci di manifestare la puissance royale. Sul punto Michel de L’Hospital non aveva dubbi : al Re apparteneva « tout pouvoir », tuttavia il Sovrano « ne tient la couronne de nous, mais de Dieu, et de la loy ancienne du royaume » [20]. Le lois fondamentales della monarchia francese reggevano l’edificio costituzionale e ne garantivano la tenuta [21].
7. Rispetto al coevo ambiente italiano, inoltre, un altro elemento valse, anche più degli altri, a fare la differenza. La peculiarità francese risiedette nell’« instaurarsi precoce e fecondo di un’osmosi costante ed arricchente tra la rinnovata cultura letterario-filosofica e la scienza del diritto » ; una sinergia proficua sino al punto di operare il « ripensamento complessivo del fenomeno giuridico alle soglie della modernità » [22]. E l’impegno produsse i suoi risultati : da un canto, si avviò l’opera di costruzione di un nuovo potere sovrano, laico ed indipendente, e dall’altro canto, già a partire dal XV secolo, l’elaborazione di un nuova metodologia di approccio al diritto, capace di riflettere la poliedricità dell’humanitas. L’opportunità di operare sul duplice livello del sapere legale e dell’azione politica conferì vitalità alla scientia juris : lungi dal restare confinata nelle stanze dei sapientes, essa divenne un eccellente instrumentum regni. Al giurista spettò di creare gli strumenti giuridici al servizio della nuova entità statale, « un monstrum qualitativamente incomparabile con qualsiasi istituzione politica conosciuta dal Medioevo » [23]. Una finalità che intervenne a mutare anche il percorso formativo dei dottori del diritto : ad un ovvio « specialized training in the schools of law » si aggiungeva, frequentemente, un’immersione « in the entire body of Renaissance learning », necessaria per affrontare le tematiche giuridico-costituzionali « in terms of criteria broader than strictly legal concepts » [24].
8. Naturalmente, la rappresentazione di un divario, profondo ed insuperabile, tra l’attività degli eredi della tradizione bartolista e l’esperienza degli umanisti francesi risponde ad una concezione manichea, che, oltre a non tener conto della proficua contaminazione tra le due realtà giuridiche, finisce per non valorizzarne i reciproci punti di forza [25]. Una visione che tende di necessità ad esaurirsi nel denunciato « implacabile duello tra mos italicus e mos gallicus iura docendi » [26]. Lontano dalla mera contrapposizione icasticamente rappresentabile nella diade « bartolisti ed antibartolisti » [27], entrambe le correnti riflettevano la crisi dei valori universalistici medievali, e, tra il finire del XV e l’inizio del XVI secolo, l’ampliamento degli orizzonti indotto dalle scoperte geografiche e scientifiche e dai mutamenti economici e politici. La dinamicità indotta da quei cambiamenti allungava inesorabilmente la distanze da una scientia juris arroccata su una visione di matrice ontologica e di ascendenza aristotelico-tomista. Tuttavia, mentre i seguaci dell’italica tradizione bartolista tentarono di operare, a livello pratico, nella convinzione che la loro attività interpretativa, a dir poco disinvolta, potesse riuscire a garantire nuova vitalità al diritto romano, i giuristi transalpini sottoposero le novità in corso al vaglio della razionalità e della storia e ricorsero agli strumenti della filologia per scrutare, anche tra le pieghe del diritto, la natura dell’uomo. La pansofia umanistica [28], non fu, dunque, il frutto di infatuazione letteraria, tanto erudita quanto sterile, ma corrispose all’impegno dei giuristi ad inserirsi nel flusso vitale della storia facendo del diritto l’osservatorio privilegiato, ma non per questo esclusivo, di una realtà più ampia ed omnicomprensiva, meritevole di essere indagata nella sua complessa specificità. La straordinaria opportunità colta nell’analisi storica e filologica corrispose ad un’esigenza, tanto concreta quanto essenziale : differenziare passato e presente per comprenderne le rispettive specificità ed elaborare gli strumenti concettuali, le categorie ermeneutiche ed i programmi di riforma, per poter incidere con successo sull’attualità.
II. L’ascesa del Cancelliere di Francia
9. L’orizzonte giuridico del futuro Cancelliere di Francia si arricchì attraverso un processo osmotico tra la lezione romanistica ricevuta nell’ateneo patavino, accresciuta degli argomenti propri del cosiddetto costituzionalismo medievale, e la nuova sensibilità umanistica [29]. L’opportunità di sperimentare contesti di vita e modelli di studio diversi tra loro [30] giovò all’Alverniate, che crebbe nella convinzione della necessità dello studio della « science des loyx, tant nécessaire pour la conduicte et adresse des actions humaines » [31]. Una consapevolezza che, nel 1551, divenuto Cancelliere del ducato di Berry, lo condusse a riformare gli studi presso l’Università di Bourges, nel precipuo tentativo di « fortifier les études du droit », realizzare il « progrès de la jurisprudence » [32] e garantire la « pérennisation des enseignements d’Alciat » [33]. Merito della sua lungimiranza furono le chiamate in quegli anni di François Duaren [34], dell’allora giovane tolosano Hugues Doneau [35] e di Jacques Cujas [36]. Scelte che rivelavano la chiara volontà d’incidere sui metodi tradizionali d’insegnamento del diritto, rinnovandoli profondamente puntando, in particolare, sulla consuetudine e sul mos gallicus.
10. Ma, il promettente giurista dimostrò i propri orientamenti moderni in tutti gli incarichi del suo prestigioso cursus honorum. Superato l’ostacolo della venalità delle cariche [37], l’Alverniate fu dapprima delegato ai Grands jours [38], dall’ottobre del 1553 fu maître des requêtes [39], e due anni più tardi, primo Presidente soprannumerario della Chambre des comptes [40]. In quest’ultima veste, L’Hospital varò alcuni interventi di riforma che rappresentarono un primo passo verso la restrizione del particolarismo parlamentare. Nel 1554 l’editto dei semestres divise il Parlamento e la Chambre in due sezioni, ciascuna operante per un solo semestre. Due anni dopo, il 27 dicembre 1556, tra le due istituzioni fu sancita la perfetta egalité. Com’è facilmente intuibile, forti furono le critiche che i giudici parlamentari rivolsero alla riforma : L’Hospital divenne « l’objet de la calomnie la plus noire » [41].
11. Nel 1560, la nomina a Chancelier de France, « primier et seul estat de genz de robbe » [42], gli consentì di raggiungere il vertice dell’apparato amministrativo e giurisdizionale. Numerose e poco definite erano le competenze del Cancelliere : egli era, infatti, l’unica vera bouche du Roi ; a lui spettava la redazione delle ordonnances, la vigilanza sulla loro esecuzione, la direzione ed il controllo della giustizia, delle finanze, della polizia, del commercio e di tutto quanto, in generale, interessasse l’ordine dello Stato. La partecipazione al Conseil du roi, che, in caso di assenza del sovrano, era da lui stesso presieduto, ne garantiva larga influenza anche in politica estera [43]. La detenzione dei sigilli reali completava il quadro consentendo al Cancelliere di Francia di farsi garante della continuità dello Stato al di là della sua incarnazione nella persona del Re [44]. Ma, ricevere quell’investitura alla metà del XVI secolo recava un’implicazione ulteriore : la trasformazione in atto nell’ordinamento giuridico verso un assetto moderno, imponeva la ricerca di formule normative capaci di tradurre in concreto il nuovo ruolo del Sovrano : « unique et suprême détenteur du monopole de la formulation des lois et constructeur, par leur intermédiaire, d’un ordre juridique royal supérieur » [45].
III. La tolleranza : una risposta politica
12. La difficile eredità lasciata da Enrico II rendeva la scelta di affidare la Cancelleria al giurista Alverniate la più adatta a salvare lo Stato dall’incombente disgregazione. La questione religiosa s’imponeva a Caterina de’ Medici come prioritaria questione politica. Il conflitto, esploso in tutta la sua gravità con la congiura degli aristocratici ugonotti ad Amboise nel 1560 [46], esigeva soluzioni che fossero, al contempo, ferme nel bloccare la pericolosa deriva, ma moderate per evitare rivolgimenti dell’ordine costituito [47]. Di questo difficile bilanciamento divenne felice interprete il giovane Cancelliere. Nel sermo, composto in occasione della consacrazione di Francesco II, l’invito rivolto al nuovo Sovrano era inequivocabile : concordia, pace e rispetto dovevano essere gli obiettivi politici prioritari [48]. Nel dicembre 1560, dinanzi agli Stati Generali di Orléans, l’appello diventava ancora più chiaro : « Toute sédition est mauvaise et pernicieuse ès Royaumes et Républiques, encore qu’elle eust bonne et honneste cause » [49]. La preoccupazione per la temibile reazione dei Cattolici, i quali avrebbero potuto scorgere un’ingiustificabile apertura nei confronti della fazione protestante, traspare dalle parole del Cancelliere. La volontà di « appaiser doulcement les troubles » non doveva tradursi in un « laisse vivre chascung à sa façon et appétit ; […] N’a esté donné liberté d’introduyre nouvelle secte, né impunité d’icelle » [50]. Nessuna libertà era accordabile alla nouvelle secte. Ciò nonostante, le bien de l’Etat imponeva il rifiuto della guerra : « le Dieu ne veult estre défendue avec armes » [51].
13. Una tensione, tutta politica, sorreggeva quelle parole che hanno falsamente alimentato il mito di un Cancelliere « philosophic advocate of religious toleration » [52]. Il problema religioso s’imponeva all’attenzione dell’uomo di legge, al politico, perché non v’era « opinion, qui tant perfonde dedans le cœur des hommes, que l’opinion de religion, ny tant les sépare les uns des aultres ». In quest’antica consapevolezza L’Hospital trovava la radice del brocardo « une foy, une loy, un roi » [53] : il pilastro dell’edificio costituzionale francese. Illusoria era, dunque, la ricerca dell’unità tra persone di credo diverso. Ricondurre la Francia all’antica unità religiosa era una priorità. Lo strumento della persuasione doveva essere finalizzato a convertir : ricostituire l’une foy corrispondeva ad un obbligo giuridico prima ancora che ad un comandamento religioso e morale. Il pluralismo religioso, insomma, minava alla radice il progetto di centralizzazione.
14. Nel giugno del 1561 [54], dinanzi al Parlamento di Parigi, la convocazione di un concile universel appariva al Cancelliere l’unico « vray remède » per sortire « quelque bon fruict » [55]. Nonostante fosse innegabile che il contagio luterano avesse permeato gli « espritz des hommes », ogni sforzo doveva essere diretto a ritrovare l’unità. Ma il salto ideologico compiuto dal Cancelliere stava nel guardare alla pace come allo strumento principe per perseguirla [56]. E via che lo scontro religioso diventava più aspro, più urgente s’imponeva l’esigenza di una pacificazione che consentisse di imporre il potere del Re al di là delle opposte fazioni. La priorità del problema politico obbligava ad agire ben prima che lo richiedesse la situazione religiosa : « Il n’est pas ici question de constituenda religione, sed de constituenda republica » [57]. Per il bene dello Stato, bisognava rifuggire l’illusione di soluzioni unilaterali. Nella storia dei diversi contesti europei, il Cancelliere trovava conferma dell’inutile ricorso alle armi :
considérant que ce trouble de religion n’est seullement en son royaume, mais chez ses voisins, en la Germanie, Angleterre, Escosse et aultres pays, où il a fallu, pour y obvier, prendre les armes, et venir à la main, chose très-dangereuse, ains qu’on voyt par l’ysseu, a recouru aux remèdes des anciens. Les maladies de l’esprit ne se guarissent comme celles du corps […]. L’opinion se mue par oraisons à Dieu, parole et raison persuadée [58].
15. Il rinnovamento doveva passare attraverso una strategia, necessariamente di lungo periodo, che faceva appello alla persuasione ed alla coscienza. Medio tempore, lontano da ogni idealismo, L’Hospital si limitava a suggerire una pratica di moderazione : la tolleranza. Ma, sul punto, la riflessione hospitaliana si sviluppò con gradualità. Se, infatti, nel discorso pronunciato all’apertura degli Stati Generali riuniti ad Orléans, il Cancelliere si diceva convinto dell’impossibilità per due religioni di convivere in uno Stato e della necessità di un ritorno all’« une foy, une loi, un roy », qualche tempo dopo, il fallimento del colloquio di Poissy [59], lo costringeva a ritenere utopico ed irrealistico il riferimento ad obiettivi di conversione. Un crollo di speranze e di aspettative portò il Cancelliere a ridisegnare l’orizzonte del proprio pensiero e del proprio agire. Soltanto una limitata tolleranza nei confronti dei Protestanti avrebbe potuto garantire, infatti, la premessa per l’auspicata stabilità del Regno. La « diversité de religion », additata ad Orlèans come un’incombente minaccia per lo Stato francese, era l’unica possibile via d’uscita dal labirinto di soprusi e violenze [60]. Spogliata da qualsiasi valenza di carattere religioso-dottrinale, aliena dalla volontà di affermare lo Stato quale soggetto laico « indifferente per definizione » [61] nei confronti della questione religiosa, l’idea di tolleranza costituiva il punto di approdo di una riflessione maturata sul campo : la sola risposta politica ad essere praticabile.
IV. L’offensiva contro il potere parlamentare
16. Le bien de l’Etat, espressione ricorrente nell’opera di L’Hospital, esigeva di limitare ogni manifestazione di particolarismo, ed, in questo quadro, anche l’autonomia dei grandi tribunali rappresentava un ostacolo. Tra i due massimi poteri, quello detenuto dal Sovrano e quello dei Parlamenti, esisteva una costante tensione, che impediva alla Monarchia di estrinsecare appieno il proprio potere. In questa prospettiva, solo apparente è il contrasto tra la tolerance, propugnata in campo religioso, ed la « sévérité inflexible » [62] mostrata nei confronti del Parlamento di Parigi. Entrambi rispondevano alla medesima finalità : realizzare condizioni di pace e di ordine per uno Stato forte ed accentrato. Agli occhi del Cancelliere, infatti, l’ambition des juges, sempre pronti a favorire gli « affaires des seigneurz, oubliant celles du roy » rappresentava un grave pericolo. La « dangereouse maladie » [63] del Regno era aggravata dalla loro ambizione di svolgere un ruolo politico. Per il Cancelliere di Francia, invece, la linea di demarcazione tra le funzioni attribuite al Re, agli États e al Parlement doveva essere netta :
les roys connoissent tant de plaintes générales, qui concernoient l’universel, que des privées et des particulières, qui sont teneues par certain nombre des juges establis par le roy, qu’on dict Parlement : les audiences publiques et générales, que le roy s’est réservées, ont priz le nom d’estats [64].
17. La necessità di ricorrere au consentement de peuple legittimava la convocazione degli Stati Generali [65] ma, per l’Hospital, riconoscere l’utilità di quella concertazione non significava ammettere la concorrenza di quei corpi alla formazione della volontà sovrana. La partecipazione di qualsiasi organo restava pur sempre soltanto uno strumento nelle mani del Re ed al servizio dell’autorità monarchica [66]. In tal senso, restava pienamente condivisibile il principio espresso nella Politica di Aristotele : « Tout ainsi qu’il est bon et utile au seigneur de commander, ainsi est au serf obéyr » [67]. Gli Stati Generali costituivano un organo consultivo che, tuttavia, considerata la propria competenza generale e la propria capacità rappresentativa un peso specifico maggiore rispetto a quello detenuto dal Parlamento di Parigi.
18. Soltanto al Re, chef absolu, competeva di governare attraverso leggi, humaines et politiques, capaci di imporsi nel flusso della storia. La loi du roi, severa, dolce o mite, a seconda delle necessità, era lo strumento attraverso cui si realizzava la mediazione tra l’ideale supremo ed universale di giustizia ed il piano, contingente e particolare delle choses incertaines.
Quand ilz considéreront que les édictz soint faictz sur choses incertaines, journellement ilz ne trouveront estrange que l’on les change selon le temps, à l’exemple du gouverneur d’un navire, lequel calle la voile et la tourne çà et là, selon que le vent est : aussy les loyx humaines et politiques ne peulvent tousjours demeurer en ung estat ; mais les fault changer quelquesfois, selon que le peuple est : la comparaison du peuple et de la mer, est propre pour l’incostance de l’ung et de l’aultre ; quelquesfois la loy sévère est bonne, quelquesfois la doulce, et quelquesfois la médiocre [68].
19. Per il Cancelliere di Francia, la capacità del diritto di adeguarsi alle mutevoli situazioni storiche diveniva la cifra della sua efficacia politica, il banco di prova della sua adeguatezza : « le vray office d’un roy et des gouverneurs est de regarder le temps, aigrir ou adoulcir les loys » [69]. Intorno al Re ed alla sua capacità di legiferare doveva imperniarsi un nuovo processo di centralizzazione capace di dare concretezza ad una ritrovata coscienza nazionale unitaria [70]. Naturalmente, nella complessa articolazione dello Stato, il ruolo svolto dagli altri organi era determinante : « les governeurs, baillifs et sénéchaulx des lieux […] sont les pieds et les mains des roys » ; i giudici, coloro cui competeva di faire garder le disposizioni imposte dall’autorità sovrana [71]. Non v’era dubbio, infatti, che « en ceste monarchie, l’interprétation appartient au roy qui a fait les loix et non a aultre » [72].
20. Deprecabile, era dunque, l’atteggiamento dei supremi togati allorquando oltrepassavano la loro puissance. Riferendosi all’attività del Parlamento di Parigi, il Cancelliere aveva affermato che spesse volte esso andava ben aldilà della « sa puissance », « alors que ceux qui devaient juger ambitionnent un role politique ». Inaccettabile, appariva agli occhi del Cancelliere, la disinvoltura con cui il Parlamento « en deslibérant sur les edictz, il a tranché de tout ou en partie ; et après avoir faict remonstrances en la volonté du roy, a faict le contraire » [73]. In questo modo, diventava palese la volontà del Parlamento di oltrepassare « l’office des juges » mettendo in pericolo la sopravvivenza stessa dello Stato.
21. Una manifestazione evidente era stata la pervicace ostinazione con cui avevano per lungo tempo rifiutato la registrazione l’editto di Romorantin [74]. La registrazione di quel provvedimento, chiaro segno della volontà di distinguere la sfera statale dagli affari religiosi e di sottrarre i secondi alla giurisdizione del Parlement, era avvenuta, peraltro solo in via provvisoria, il 16 luglio 1560 dopo le estenuanti pressioni di L’Hospital [75].
22. All’incirca ad un anno di distanza da quegli eventi, la distanza tra le due posizioni divenne ancor più evidente. Nella primavera del 1561, allorquando lo scontro culminò negli scontri di Parigi del 6 Aprile, l’urgenza d’intervenire s’impose sopra ogni altro dovere istituzionale. Il 19 dello stesso mese, una ordonnance che esprimeva fedelmente il pensiero del Cancelliere, poneva al bando le espressioni « ugonotto » e « papista » : terminologia a cui facevano eco pericolosi risvolti politici, prima ancora che religiosi. La disposizione, nel confermare la necessità di punire le assemblee illecite e le ribellioni violente, apriva un orizzonte nuovo : purché avessero vissuto con modestia e senza suscitare scandalo, i Protestanti non dovevano essere perseguitati [76]. Così articolate era comprensibile che le disposizioni suscitassero lo scalpore più totale nel Parlamento che era la roccaforte della componente cattolica [77]. Ma l’offensiva contro il Parlamento fu ulteriore : il Cancelliere evitò di sottoporre l’editto alla registrazione del Parlamento di Parigi, inviandolo direttamente ai baillis et sénéschaux affinché lo eseguissero comme loi d’etat [78]. L’argomentazione giuridica sostenuta dal Cancelliere per sottrarre il provvedimento all’enregistrement riposava sul contenuto dell’editto : promulgando le determinazioni degli Stati Generali, esso non richiedeva alcuna ulteriore deliberazione da parte del Parlamento. Per i magistrati transalpini, ciò non era affatto sostenibile : « sans cette formalité, ces édits doivent etre considérés comme non avenus » [79]. L’autorità legislativa degli Stati Generali, che L’Hospital manifestava di ritenere superiore nella gerarchia statale rispetto a quella del Parlamento di Parigi, non poteva comportare, ad avviso dei giudici francesi, la lesione delle prerogative di quell’antica corte di giustizia. Lo scontro divenne così violento che i Parlamenti giunsero al punto di chiedere che il Cancelliere abbandonasse la propria carica e soltanto l’accorato intervento della Regina Madre, 29 Luglio del 1561, indusse il Parlamento [80], ad un enregistrement provvisorio che per il vero, aveva più il sapore di una sconfitta per la Corte che di una vittoria.
23. Gli eventi citati testimoniano l’asprezza dello scontro e l’intento del Cancelliere di agire senza mezzi termini contro il particolarismo giudiziario. Alla medesima logica rispondeva la volontà di operare una razionalizzazione e semplificazione dell’apparato giurisdizionale capace di riflettere la più generale esigenza di centralizzazione del potere politico : alcune disposizioni contenute nella celebre ordonnance di Orléans possono interpretarsi in tale direzione. Innanzitutto, furono soppresse le magistrature di prima istanza, prévotés e vignéries, in tutte le città dove era già operativo un bailliage o una sénéchaussée. Ai titolari di questi uffici, fu fatto inoltre obbligo di visitare e controllare, almeno una volta ogni quadriennio, i distretti di rispettiva competenza per verificare la gestione del contenzioso. Completava il quadro l’articolo 39 che, di fatto, determinava l’abolition de la vénalité des offices de judicature e il ripristino del sistema dell’élection per la nomina dei giudici dei Parlements [81]. Si trattava di una novità molto rilevante che consentiva, da un canto, l’affidamento delle cariche a consiglieri dotati di adeguata preparazione tecnica e, dall’altro, concentrava nelle soli mani del Sovrano il potere di scegliere i propri consiglieri, esercitando di fatti una più marcata funzione di controllo su di essi. Entrambe le finalità, evidentemente, rassicuravano il Cancelliere preoccupato della più temibile minaccia al potere sovrano : l’autarchia dei giudici dei Parlements.
24. Le difficoltà cui porre rimedio erano almeno due : in primis, bisognava respingere l’indebita ed inaccettabile ingerenza dei magistrati nell’attività legislativa e di governo, che era di esclusiva pertinenza del Re ed al massimo del suo Conseil privé ; in secondo luogo, doveva essere ridimensionata anche l’eccessiva libertà con cui i Parlamenti amministravano la giustizia. Solo cosi si sarebbe finalmente realizzato il principio per cui « la loy soit sur les judges, non pas les judges sur la loy » [82]. La déclaration de la majorité de Charles IX, il 17 agosto 1563, fu l’occasione per rimarcare, ormai senza il benché minimo indugio, entrambe le finalità in vista dell’affermazione dell’assolutezza del potere del Sovrano. Secondo gran parte della storiografia francese, quel momento fu una « mise en scène ritualisée où la division spatiale exprime la séparation entre le roi et le Parlement », nel tentativo di dimostrare la necessaria « soumission des cours au pouvoir royal qui devient majeur ». Anche la scelta di procedere alla dichiarazione dinanzi ad un parlamento provinciale, com’era quello di Rouen, piuttosto che di fronte al parlamento di Parigi, dimostrava la volontà del Cancelliere di « rebaisser le parlement de Paris et miner ses prétentions à être unique cour suprême de justice royale » [83].
25. Soltanto, qualche mese dopo, il 12 novembre del 1563, Michel de L’Hospital pronunciò una delle sue più dure harangue nei confronti del Parlamento di Parigi. In quell’occasione, il Cancelliere richiamò all’ordine e all’efficienza i membri della prestigiosa Corte francese e li rimproverò duramente di lasciarsi trascinare dai loro interessi privati e di essere così di ostacolo per la prosperità del Paese. Attraverso le loro decisioni, i grandi tribunali erano responsabili di aver alimentato guerre civili, sedizioni e discordie religiose [84]. Il loro arbitrio aveva lacerato il rapporto con i giudici inferiori, distrutto l’immagine di compattezza della giustizia statale e generato un clima d’irreparabile disordine. Essi avevano esercitato con faziosità le loro funzioni dimenticando l’origine dei loro poteri [85].
Et pensez que vous qui l’avez du Roy non hominis iudicium sed Dei exercetis, comme il est escrit en vostre tableau, qui n’est a dire seulement que ainsi que Dieu a toute puissance sur les hommes, les hommes ayent puissance sur ceux de leur ressort ; Mais aussi pour enseigner les hommes iuges d’imiter Dieu et iuger comme luy sans passion, faueur ou acception de persone, et penser qu’ils exercent le iugement da Roi non le leur [86].
L’attacco, diretto e senza mezzi termini, alla condotta dei magistrati consente di comprendere l’orizzonte ampio e poliedrico del progetto hospitaliano che fu, ad un tempo, politico, religioso e giudiziario [87].
V. La nascita dei juges consuls
26. L’opera di riorganizzazione intrapresa da L’Hospital in campo giudiziario incise in misura rilevante anche nello specifico ambito economico-commerciale. Il collegamento esistente tra la paralisi dell’apparato giudiziario e la crisi dell’economia costituisce un motivo portante della critica hospitaliana : la giustizia era stata amministrata in modo ignobile finendo per « abastardir, avilir et rabaisser la négociation et trafic de marchandise » [88]. Anche l’economia doveva essere riportata sotto le direttive dirigistiche del Sovrano.
27. L’assioma secondo cui all’origine dell’avvilimento economico vi fosse, in primo luogo, la paralisi dell’apparato giurisdizionale era, per il Cancelliere di Francia, storicamente dimostrabile. L’introduzione della venalità delle cariche era stata, infatti, all’origine di almeno due trasformazioni rilevanti per l’organizzazione dello Stato. In primis, la possibilità d’investire capitali nell’acquisto delle cariche aveva distolto le ricche famiglie dall’impiego degli stessi nella negoziazione, inducendo un meccanismo di naturale depressione nell’economia. In secondo luogo, l’affidamento degli affari giurisdizionali a chi vi si era dedicato al solo scopo di trarne profitto aveva prodotto effetti deleteri nel modus operandi della magistratura. A ciò si aggiungeva un ulteriore motivo di crisi. Le difficoltà procedurali incontrate nell’instaurare e portare avanti il processo scoraggiavano i mercanti dal ricorso alla giustizia. A chi poneva il guadagno quale fine della propria esistenza, doveva apparire assolutamente antieconomico impegnarsi in processi lunghi e dall’esito incerto. La celerità dei rapporti commerciali, insomma, mal si coniugava con i formalismi della giustizia tradizionale richiedendo strumenti estemporanei di composizione delle liti attuabili solo attraverso la gestione immediata e diretta dei conflitti da parte dei mercanti [89].
28. Un primo tentativo di riforma in tale direzione fu compiuto nell’agosto del 1560, appena qualche mese dopo l’ascesa di L’Hospital al Cancellierato. Un’ordonnance di Francesco II introdusse un sistema di arbitrage forcé pour les litiges commerciaux [90], che comportava il divieto per i mercanti di ricorrere ai giudici ordinari e consentiva di porre in essere una sorta di arbitrato, ossia, di sottoporre a tre o più soggetti, purché in numero dispari, le liti nate pour fait de merchandises. Gli arbitri così designati avrebbero avuto il potere d’imporre la loro sentenza alle parti, al pari dei giudici ordinari. A questi ultimi era riservato uno spazio d’intervento assolutamente residuale : competeva a loro la scelta degli arbitri se le parti non si fossero accordate sulla loro nomina. Il nuovo tribunale arbitrale avrebbe rimediato agli inconvenienti della macchina giudiziaria tradizionale ed avrebbe tutelato i mercanti, i quali « le plus souvent agissent de bonne foi entre eux, sans témoins et notaires, sans garder et observer la subtilité des loix » [91].
29. Il progetto, pur godendo di ottime premesse, non sortì gli effetti sperati. Non risulta difficile pensare che la macchinosità della procedura, nel far salva la competenza della magistratura ordinaria in secondo grado, abbia determinato il sostanziale fallimento del tentativo di riforma. Il ricorso in appello, infatti, certamente utilizzabile con finalità dilatorie, si presentava utilizzabile strumentalmente da chi, tra i contendenti, fosse rimasto soccombente in primo grado, per eludere il giudizio arbitrale e, in sostanza, per annullare l’effetto positivo derivante dalla nuova procedura [92]. Tuttavia, nonostante gli indubbi limiti della procedura, attraverso quel tentativo aveva preso concretezza l’idea di stabilire in ambito commerciale un binario, almeno in parte, alternativo rispetto al modello giurisdizionale ordinario. D’altro cento, il provvedimento era stato ispirato ad una generale prudenza : la competenza in materia di commercio era stata sottratta alla giustizia ordinaria soltanto in primo grado, ed era stata attribuita ad un collegio arbitrale che restava, anche formalmente, ben diverso da un vero e proprio tribunale. L’espediente dell’arbitraggio forzato, insomma, non aveva in alcun modo appagato le richieste del ceto mercantile che, già nel dicembre del 1560, aveva manifestato la sua insoddisfazione durante gli Stati Generali riuniti ad Orléans con un apposito cahier de doléances, sollecitando la creazione di una giurisdizione speciale commerciale che giudicasse « à la simple audition des parties, sans intervention d’avocats ou procureurs », pronunciando « sentences exécutoires, nonobstant appel » [93].
30. Soltanto nel novembre del 1563 [94], un editto siglato da Carlo IX, poté rispondere a quelle istanze andando ben oltre la precedente più timida iniziativa. L’editto, ancora oggi, considerato come l’« acte fondamental sur lequel reposent encore de nos jours les tribunaux de commerce » [95], creava nella città di Parigi una nuova giurisdizione, quella dei juges consuls. Il nuovo tribunale, costituito da un giudice e quattro consoli scelti tra negozianti nati nel Regno di Francia e dimoranti nella città di Parigi, era chiamato a giudicare le liti tra mercanti per fatti inerenti l’esercizio della loro professione. Un’attenta normativa interveniva a disciplinare la selezione dei nuovi giudici secondo un procedimento che doveva garantire la continuità nell’esercizio delle funzioni giudicanti nonostante il ricambio annuale dell’intero corpo giudiziario [96].
31. Circa la competenza, l’editto prevedeva una cognizione ratione materiae estesa alle cause tra mercanti per fatti inerenti all’esercizio della loro attività che avessero avuto luogo da lettere di cambio o di credito, trasferimenti e novazioni di debiti, assicurazioni, associazioni e società. Una formulazione ampia che finiva per sottrarre alla giustizia ordinaria tutta la materia commerciale. Dal punto di vista territoriale, la competenza del nuovo organo veniva circoscritta alla sola città di Parigi, tanto che il Prévôt des Marchands et Echevins di quella città veniva incaricato della sua organizzazione ed in particolare della nomina dei cento soggetti che avrebbero scelto, tre giorni dopo la pubblicazione dell’editto, i cinq nouveaux juges et consuls.
32. Tuttavia, l’indiscutibile originalità del nuovo organo risiedeva proprio nella dettagliata previsione di un nuovo rito. Celerità, gratuità, assenza di formalismi rappresentavano i punti chiavi della riforma. Sin dalle prime righe del provvedimento si evidenziava la stretta relazione esistente tra « le bien public » e l’« abréviation de tous procès et différends entre marchands » [97]. Un collegamento che era stato, già in occasione dell’Assemblée de Fontainebleau [98], tra l’agosto e gli inizi di settembre del 1560, indicato dal Cancelliere quale chiave di volta del progetto di riforma. In quell’occasione, il Cancelliere si era apertamente dichiarato favorevole ad attribuire ai mercanti una competenza diretta a giudicare le loro liti, nella convinzione che « en leurs affaires un grand Barthole serait plus embarrassé qu’eux » [99].
33. L’ufficialità del consesso in cui quelle affermazioni erano fatte rende facilmente spiegabile l’ostilità manifestata dai giudici dei Parlamenti nei confronti di quell’iniziativa che era chiaramente lesiva delle « leurs prérogatives et leurs profits » [100]. Ma, il malcontento delle più alte cariche giudiziarie non scoraggiava affatto il Cancelliere : quelle critiche testimoniavano indirettamente il successo della riforma. In breve tempo gli editti si susseguirono e decretarono la nascita delle giurisdizioni consolari commerciali nelle principali città della Francia [101]. La scelta d’istituire i nuovi tribunali, attraverso una pluralità di provvedimenti particolari piuttosto che attraverso una regolamentazione generale, rispondeva alla logica di mostrare come ciascun singolo tribunale, dalla competenza territorialmente circoscritta, potesse nascere solo a seguito di una negoziazione diretta tra il Sovrano e ciascuna città, secondo la logique du privilège [102]. Evidente doveva essere il collegamento esistente tra i nuovi organi giusdicenti e la potestà sovrana : nessun corpo intermedio doveva frapporsi alla puissance del potere sovrano.
VI. Il conflitto tra corpi giudiziari
34. L’ostilità nutrita dai Parlamenti nei confronti dei juges consuls si manifestò appieno nella procedura di enregistrement dell’editto che li istituiva : essa fu procrastinata sino al 18 gennaio 1564 [103]. Se si considera che in Francia la procedura dell’enregistrement segnava l’entrata in vigore di qualsiasi provvedimento [104], ben s’intende la ratio ostruzionistica di quella condotta. La registrazione dell’editto del 1563 spettò, in primo luogo, al Parlamento di Parigi [105] : la sua concessione segnò la nascita delle giurisdizioni consolari nella capitale francese. L’editto fu poi sottoposto ad enregistrement anche presso gli altri Parlamenti francesi e presso alcune giurisdizioni inferiori, come lo Châtelet de Paris [106]. La funzione di queste successive registrazioni era però ben diversa : per mezzo di esse, il provvedimento acquisiva validità anche in altri territori o presso altre corti giudicanti, ma con efficacia diversa, avuto riguardo al peculiare contenuto che la giurisdizione procedente attribuiva al proprio atto [107]. L’enregistrement principal era, dunque, il più rilevante : soltanto dopo la sua concessione, qualsiasi provvedimento poteva dirsi vigente nell’ordinamento giuridico francese. Ma la resistenza temporanea opposta dai Parlamenti francesi, ed in particolare dal Parlamento di Parigi, agli ordini del Re aveva già frequentemente segnato in Francia i rapporti toga-sovranità [108].
35. Nel caso dell’editto del 1563, la mancata registrazione impediva di avviare il meccanismo di nomina dei giudici del nuovo organo paralizzando, nei fatti, l’azione riformatrice. Nonostante le continue lettres de juisson che il re indirizzò « pour réitérer son ordre et accélérer la procédure » [109], il Parlamento di Parigi ne ritardò più che poté la registrazione che, alla fine, fu concessa ma con un emendamento in materia di giuramento che fu capace di snaturare ideologicamente l’iniziativa riformistica depotenziandola. Mentre nell’originaria stesura, infatti, si prevedeva che i primi juges consuls avrebbero giurato dinanzi al Prévôt des Marchands e, in seguito, innanzi a les anciens, il Parlamento modificò la disposizione imponendo che i nuovi giudici mercanti prestassero il proprio giuramento innanzi al Parlamento di Parigi [110]. La pretesa di ricevere il giuramento dei mercanti lasciava chiaramente intendere la volontà dei giudici ordinari di palesare la propria superiorità esercitando un controllo sui nuovi corpi giudicanti.
36. La conflittualità tra l’apparato giudiziario tradizionale ed i nuovi organi influenzò in modo determinante tutta la loro attività. Ma se i Parlamenti, per importanza e prestigio, rappresentarono i nemici più arditi, anche le giurisdizioni inferiori (ad esempio, il Prévôt des Marchands) avvertirono di essere state spogliate di gran parte delle loro funzioni : ragion per cui l’ostilità anche con quest’ultime fu fortissima. Un numero rilevante di conflitti di giurisdizione intervenne a paralizzare l’attività dei giudici mercanti [111]. Ma, ai massimi livelli, i contrasti si manifestarono nei rapporti tra Parlamento e giurisdizione consolare, tutte le volte in cui i giudici parlamentari dichiararono ricevibili anche i giudizi di gravame proposti contro sentenze consolari inappellabili.
37. I continui disordini, alimentati dalle numerose dispute, erano all’estremo opposto del disegno d’ordine ispirato e fortemente voluto da Michel de L’Hospital e resero necessario un nuovo intervento da parte del Re, che il 28 aprile 1565 emanò la Déclaration et interprétation du Roi sur l’édit de l’élection d’un juge et quatre consuls en sa ville de Paris [112] : un atto ufficiale in cui, attraverso l’interpretazione autentica dell’editto istitutivo della giurisdizione consolare, si cercò di porre rimedio alla generale crisi. L’ostacolo era generato dal fatto che i giudici ordinari
empeschent le cours de ladite Iurisdiction, soubs couleur que le Pouvoir que nous avons attribué ausdits Iuges et consuls, n’est si amplement et particulièrement declaré par ledit Edict, qu’il est requis. Et le contenu en iceluy est par eux respectivement interprété et restraint à leur avantage [113].
38. I conflitti di giurisdizione e di competenza miravano a far diventare soltanto illusoire la possibilità di ricorrere ai juges consuls. Per ovviare a questi inconvenienti, il sovrano invitava tutti i giudici a rispettare l’ambito delle proprie competenze, « sans qu’aucun excède le pouvoir à luy attribué » [114]. Diventava prioritario ribadire [115] che tutte le controversie tra mercanti, ivi comprese quelle riguardanti il commercio al dettagio, dovevano rientrare nella competenza del nuovo tribunale. Purché i fatti controversi avessero avuto luogo a Parigi, anche i mercanti stranieri sarebbero stati sottoposti ai juges consuls della Capitale. Persino i contratti, ai quali fosse apposto il sigillo del Châtelet de Paris, sarebbero stati rimessi alla cognizione dei consoli. Neppure i privilegi eventualmente derivanti da lettres de committimus sarebbero valsi ad eludere la giurisdizione consolare. Il provvedimento non mancava di toccare anche le relazioni tra i giudici ordinari ed i sergents incaricati di fare eseguire le sentenze, facendo divieto ai primi di esercitare pressioni per impedire l’esecuzione delle pronunce consolari. I sergents erano inoltre obbligati ad assistere i giudici-consoli e a non sottrarsi alle loro incombenze sotto pena di perdere il loro ufficio.
39. Un insieme di disposizioni, insomma, era posto in campo per inibire l’azione ostruzionistica della giustizia tradizionale e ridurre gli episodi di conflitto tra gli apparati giudiziari. Attraverso di esse il Cancelliere confermava la validità del proprio progetto : una nuova forma di giustizia, interamente modellata sulle pratiche sociali [116], svelava in filigrana i limiti della giustizia tradizionale amministrata in considerazione delle qualità delle persone. Così mentre i Parlamenti continuavano ad essere lo specchio di assetti sociali legati alla tradizione, i giudici mercanti erano chiamati a giudicare indipendentemente dai privilegi legati agli status, alle cariche, agli onori, sulle azioni e sui fatti.
40. In questo quadro, l’introduzione delle giurisdizioni consolari non va letta semplicemente come l’intervento settoriale diretto a innovare un ramo della più ampia amministrazione della giustizia. Sembra chiaro che nell’ottica hospitaliana, l’intento fosse quello di mostrare, attraverso la novità, la possibilità di mutare l’assetto giudiziario precostituito. Una conferma di tanto è rintracciabile nell’ordinanza di de Moulins del 1566 : una « vaste remise en ordre de l’administration du Royaume », che « limite singulièrement le rôle politique des Parlements » [117]. Essa rappresentò, infatti, il « primo vero tentativo di rivendicare la statualità della procedura e la riserva della funzione legislativa del re » [118]. Con l’obiettivo di sottrarre alla magistratura ordinaria ulteriore potere, l’art. 72 dell’ordinanza di de Moulins demandava anche la materia di polizia a giudici temporanei, che sarebbero stati in carica per sei mesi o un anno, eletti in ciascuna città e presenti in ogni quartiere [119]. La disposizione, in linea con l’editto del 1563, confermava, attraverso l’introduzione di nuovi giudici straordinari e temporanei [120], la possibilità di concepire alternative alla giustizia tradizionale ed ordinaria.
41. Non a caso, rispetto a entrambe le iniziative, una parziale inversione di tendenza si realizzò solo nel 1579, allorquando, terminata la stagione del cancellierato hospitaliano, la Corte francese aveva sensibilmente mutato le linee della propria azione. Gli art. 239 e 240 dell’ordonnance de Blois, infatti, introducendo la distinzione tra le città principales et capitales des provinces e les villes inférieures, determinarono l’abolizione dei tribunali consolari in tutte le villes inférieures. Nelle città con esiguo traffico commerciale, le liti mercantili sarebbero state nuovamente di competenza dei giudici ordinari, ai quali era, tuttavia, fatta raccomandazione di
juger sommairement les Procès de Marchands à Marchands, & pour fait de Marchandises, sans tenir les Parties en longueur de Procès, ni les charger de plus grands frais, qu’elles eussent supportés devant les Consuls, sous peine de concussion [121].
42. La storiografia è divisa nell’interpretazione di questo provvedimento : per alcuni, esso fu il frutto dell’azione quotidianamente intrapresa da magistrati e giuristi di mestiere assolutamente ostili alla nuova istituzione ; per altri, l’ordinanza si limitò a prendere atto dell’inutilità della giurisdizione consolare nei piccoli centri [122]. In ogni caso, si trattò di un provvedimento che ebbe effetti limitati, che in generale fu mal applicato e che perciò conserva intatta la validità e l’importanza dell’azione di L’Hospital. Il merito del Cancelliere di aver creato la giurisdizione consolare-commerciale fu riconosciuto nel 1790, in occasione dell’Assemblée Nationale :
Les consuls ont été établis par le Chancelier de L’Hospital. Il faut y regarder à deux fois, non seulement pour proscrire, mais pour faire le moindre changement à une institution dont le Chancelier de L’Hospital est l’auteur. Cette institution, que l’opinion publique a approuvée, a été maintenue dans toute sa pureté pendant deux cents ans. Elle présente trois avantages sensibles : une justice prompte, pas dispendieuse, éclairée et susceptible de toutes les mesures qui peuvent conduire à un jugement équitable, et on oserait attaquer une semblable institution [123].
VII. Dal successo alla retraite
43. Nel febbraio del 1566, la celebre ordinanza di Moulins offrì compiuta sistemazione al pensiero del Cancelliere : l’ordinanza traduceva in un organico e coerente provvedimento legislativo, il disegno hospitaliano volto a « mantenere ogni elemento della società nel suo luogo e nella sua situazione naturale, ma con una venatura assolutistica » [124]. L’analisi complessiva del provvedimento prescinde i limiti di questo contributo, ma interessa qui sottolineare che attraverso di essa, il Cancelliere reclamò la necessità di un provvedimento che, investendo contemporaneamente ambiti propri del diritto pubblico e del diritto privato, limitasse il potere detenuto dai membri dei Parlamenti e restituisse nuova credibilità alla « mauvaise administration de la justice » [125].
44. In tal quadro, la proposta volta a far sì che « les juges ne fussent pas inamovibles, mais seulement élus pour une ou plusieurs années et que les résignations de charges ne pussent être admises que pour les enfants du titulaires, et dans le cas seulement où ils seraient jugés capables de les exercer » [126] agiva chiaramente nella direzione di ridurre lo spazio di autonomia della magistratura e di ricondurre il potere degli uomini di toga in una cornice coerente con i caratteri propri di uno Stato accentrato. In armonia con questo proposito, l’art. 2 dell’ordinanza sanciva l’obbligo per i Parlamenti di procedere alla registrazione degli editti e delle ordinanze reali tutte le volte che il Sovrano, dopo un primo rifiuto, avesse rinviato l’atto per la registrazione. La disposizione dava il segno della precisa insofferenza nutrita dalla Cancelleria nei confronti delle resistenze e dei dinieghi che spesse volte il Parlamento aveva opposto alla registrazione dei provvedimenti sovrani.
45. I Parlamenti dovevano, insomma, resistere alla tentazione di svolgere una funzione politica e di governo. Sotto l’egida di un potere sovrano forte ed accentrato, la magistratura doveva operare in modo trasparente e fare dell’efficienza il principale obiettivo della sua azione. La finalità di garantire una nuova credibilità all’azione giudiziaria passava anche attraverso una serie di proposte riguardanti anche i rapporti di diritto privato : dall’ambito delle donazioni a quello dei contratti, le proposte del Cancelliere apparivano tutte finalizzate a conferire nuovo prestigio alla macchina giudiziaria e maggiore efficienza nelle dinamiche giuridiche, specie se legate all’economia ed al commercio. Ad essere rivendicata era, dunque, da un lato, la « statualità delle procedure » e dall’altro « la riserva della funzione legislativa del re » [127] in un connubio che si presentava quale base fondante di un nuovo ordine giuridico. La conferma dell’audacia delle disposizioni varate a Moulins fu la reazione del Parlamento di Parigi, che registrò l’ordinanza ancora una volta soltanto in seguito di vivissime rimostranze.
46. Ma il confronto dialettico tra il Cancelliere ed il Parlamento non esauriva l’orizzonte dei problemi che destabilizzavano lo Stato. Nel febbraio del 1566, nel corso dell’Assemblea di Moulins, il Cardinale di Lorena, che pure era stato amico e protettore del Cancelliere e che poteva ben dirsi portavoce del Pontefice Pio V, aveva chiesto, a nome del Parlamento di Borgogna, l’abrogazione dell’editto di Amboise. Quel provvedimento, la cui stesura era stata il frutto dello strenuo impegno del Cancelliere, era stato varato per tentare la pacificazione tra la parte cattolica e quella ugonotta [128]. Pur concedendo ai Riformati la libertà di coscienza, l’editto era stato da essi giudicato insoddisfacente : eccessive restrizioni al culto continuavano a gravare, come pesanti macigni, sulla condizione degli ugonotti. Ma, il provvedimento era stato guardato con sospetto anche da parte cattolica : la richiesta di abrogazione dell’editto avanzata dal Cardinale di Lorena era in tal senso emblematica. La validità delle regole varate ad Amboise era stata difesa dal Cancelliere : esse erano pienamente « conformes aux édicts […] faicts pour la pacification du royaume » [129].
47. La forza con cui Michel de L’Hospital respingeva la proposta di abrogare l’editto di pacificazione e sollecitava, ancora una volta, la ricerca del dialogo confermava la volontà, sua e della Corte, di perseguire la paix come viatico per l’unità dello Stato : a nulla poteva servire affogare nel sangue le vite e gli ideali degli oppositori. Ma, la precarietà politica del Regno di Francia acuiva i problemi. In tal senso l’avvento al trono di Carlo IX aveva solo in parte offuscato l’influenza della potente famiglia dei Guisa. La conversione di Antonio di Borbone, re di Navarra, al cattolicesimo nell’agosto del 1562 aveva, infatti, avuto come conseguenza l’alleanza tra questi ed il duca di Guisa. Sotto il mero pretesto della religione, i personaggi più vicini alla Corte avevano trovato il mezzo per animare lo scoppio di una vera e propria guerra civile che difatti, nel settembre 1567, infranse il progetto di pace elaborato ad Amboise. Era il segno di un inesorabile declino che trascinava con sé le sorti personali del Cancelliere di Francia ed il destino del suo programma di governo.
48. La pace di Longjumeau, siglata il 23 marzo 1568 tra il Sovrano ed il Condé, ristabiliva formalmente l’editto di Amboise, ma non era in grado di restituire credibilità al programma hospitaliano [130]. La mancanza di sostegno da parte di una Corte, che sempre più appariva orientata a ricalcare i sentieri, tradizionali e perciò rassicuranti, della guerra piuttosto che della pace, dell’unificazione cadenzata a suon di cannoni piuttosto che di editti ed ordinanze, si dimostrò letale per la politica hospitaliana. Paradossalmente, proprio la ricerca della pacificazione dello Stato, quale espediente necessario per restituire unità e forza alla Francia, l’elemento che più d’ogni altro aveva spinto la monarchia francese a credere nel progetto hospitaliano, rendeva ora inviso alla Corte l’eminente statista [131]. Il momento della retraite, maturato attraverso la decisione di vivere « in villam meam cum uxore, filia, parvisque nepotibus », era ormai giunto [132].
Maria Natale